Carl Von Linde e la grattachecca del Divo Adriano

Nella primavera del 1877 entrava in servizio nel birrificio Dreher, nell’allora austro-ungarica Trieste, la prima macchina frigorifera industriale Linde. Ben pochi potevano immaginare che quello che sembrava allora un miracolo della termodinamica industriale sarebbe diventato nel volgere di un secolo un banale, e a volte fastidioso, ronzio, quello del compressore di un qualunque frigorifero delle nostre cucine.

Carl von Linde, geniale ingegnere ed imprenditore tedesco, calato sulla scena come un vero deus ex machina, aveva inaspettatamente chiuso il sipario su una plurisecolare e lucrativa attività, quella del commercio della neve, fiorente soprattutto nell’area dei Lucretili. Di questo commercio, che arricchiva lo Stato Pontificio, restano solo sparute tracce, che il tempo si affanna a cancellare: una manciata di pozzi per la raccolta e la conservazione della neve, ormai ricolmi di detriti, sul crinale del Monte Pellecchia (la cui neve era reputata, e di gran lunga, la migliore), una strada della Neve che sopravvive ormai solo nella toponomastica locale e che assicurava il trasporto della neve fino a Roma, passando per Palombara, l’ormai dimenticato culto della Madonna della Neve, a Monteflavio e a Rocca Priora, sui Colli Albani e la celebre neviera di Papa Giulio III, a villa Giulia. Ma se il commercio della neve ha in realtà radici medio-orientali antichissime, che si perdono nella notte dei tempi, è con gli antichi romani che ha assunto una dimensione ineguagliata di lusso e cupidigia.

E chi meglio di Nerone potrebbe introdurci nel folle mondo del lusso romano? Lasciamo Svetonio descriverci gli ultimi momenti di vita del celebre imperatore: Scalzo, con una sola tunica addosso, Nerone, ancora terrorizzato dalle grida dei pretoriani che giurano fedeltà a Galba nei Castra Praetoria, accanto ai quali è passato al galoppo, raggiunge, ansimante, la villa di campagna del suo fedele liberto Faonte, alle porte di Roma. Avanzando tra i rovi a quattro zampe, arso dalla sete, raccoglie nel cavo della mano l’acqua putrida di una pozzanghera e la beve, rassegnato alla morte ormai prossima, esclamando ironicamente la celebre frase: “Haec est Neronis decocta!”.

Nerone in effetti si vantava di avere inventato la cosiddetta acqua “decotta”, cioè acqua fatta bollire e poi raffreddata ponendo il contenitore nella neve fresca. I suoi vizi non si limitavano certo solo a questo. Svetonio ci dice che Nerone amava intervallare gli interminabili banchetti estivi che si protraevano da mezzogiorno a mezzanotte con rinvigorenti nuotate in piscine fatte raffreddare con la neve. E non possiamo allora non pensare a Seneca, il celebre precettore di Nerone, che certamente non approvava gli eccessi del suo allievo. Nelle sue Questioni Naturali Seneca si lamenta apertamente del commercio della neve: il lusso, ci dice, non contento che l’acqua fosse gratuitamente disponibile per tutti, l’ha voluta trasformare in merce rara. Ormai nessuna acqua corrente appare fresca a sufficienza per raffreddare gli stomaci arsi dalle indigestioni quotidiane.

E non bastando piu’ la neve ora si cerca il ghiaccio, estratto dal fondo delle neviere, il cui prezzo, oggetto di folli speculazioni, varia in continuazione! E cosa avrebbero mai fatto gli integerrimi Spartani, che avevano cacciato via i profumieri, accusati di sprecare prezioso olio, se avessero visto a Roma tutte queste officine della neve e questo incessante viavai di bestie da soma adibite al trasporto di un ghiaccio il cui gusto era, tra l’altro, irrimediabilmente guastato dalla paglia utilizzata per la sua conservazione? Ma le invettive dello stoico precettore neroniano non servirono a molto. Qualche decina di anni dopo, Marziale, nei suoi epigrammi, continua a fustigare, con la sua ineguagliabile ironia, il vizio della neve. Se esorta il suo amico Alcino a sciogliere della neve conservata per l’estate nel vino che si apprestano a bere, in un altro epigramma consiglia di non mescolare il pessimo vino di Marsiglia con acqua fresca di neve perché costerebbe ben piu’ l’acqua del vino e lo stesso vale per i mediocri vini spoletini o marsicani.

Ad un altro amico dice di volere regalare per la festa dei Saturnali una fiaschetta di acqua decotta, che considera una geniale invenzione, in cambio di un dono ben piu’ pregiato e biasima poi il medico che gli proibisce, per motivi di salute, di bere la neve augurando a chi lo invidia di bere acqua calda! È vero che in generale tutti i medici romani reputano malsano bere la neve, tutti tranne uno, secondo Marco T. Varrone. Il dotto reatino ci dice infatti che il medico ed amico di Cicerone, Asclepiade di Prusa, era soprannominato “frigida danda” per la sua abitudine di prescrivere ai suoi pazienti vino ed acqua fredda di neve. Plinio il Vecchio nella sua Storia Naturale non è dello stesso avviso, reputando malsana l’abitudine di bere la neve, il ghiaccio e soprattutto la grandine e bacchetta i ricchi che si ostinano a farlo, trasformando quelli che un tempo erano flagelli delle montagne in peccati di gola. Il nipote, Plinio il Giovane, non deve avere dato molto retta ai consigli del celebre zio perché parecchi anni dopo lo troviamo molto irritato dal fatto che il suo amico Setticio Claro, potente prefetto del Pretorio, non si sia presentato alla cena a cui era stato invitato, facendogli sprecare la neve che era stata imbandita sui tavoli. Il piu’ bel racconto è però quello di Aulo Gellio che in una imprecisata rovente estate romana della seconda metà del II secolo d.C. si trova in una villa di un ricco amico nei pressi di Tivoli. Immersi nelle loro discussioni filosofiche, sorseggiano grandi quantità di neve al punto che un loro amico, seguace di Aristotele, con un libro del celebre Stagirita alla mano, si scaglia indignato contro questo malsano vizio.

E cita l’inoppugnabile argomentazione di Aristotele: quando il ghiaccio si scioglie si riduce di volume e l’acqua di fusione, pesante, risulta dunque privata della sua parte piu’ eterea e benefica. Aulo ci assicura di essere stato così convinto che smise immediatamente di bere neve ma altrettanto non fecero i suoi amici. A non molta distanza dalla villa di cui ci parla Aulo Gellio sorgeva quella, imponente, fatta erigere dal Divo Adriano, suo rifugio prediletto e nei cui criptoportici sotterranei si celavano immense neviere. Un pensiero finale va dunque all’imperatore, magnificamente descritto da Marguerite Yourcenar, nelle sue celebri memorie. Inquieto per la sua salute declinante e disteso su un triclinio del sontuoso ninfeo del Canopo, lo sorprendiamo, in un afoso tramonto agostano, a sorseggiare acqua decotta in un raffinato calice e ad assaporare una deliziosa, croccante insalata di pollo all’apiciana, raffreddata con la neve del “Lucretilis Mons”. Il suo sguardo pensieroso rimbalza sull’immobile specchio d’acqua del Canopo e si sofferma, esitante, sulle bianche nuvole sovrastanti i non lontani Lucretili. Un sorriso a stento trattenuto affiora all’improvviso sul suo volto barbuto, i Lucretili e la loro candida neve regalano ancora un effimero, forse ultimo, momento di gioia all’anima vagula blandula, sua fedele compagna di vita.

Filippo Tani

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