
Nel monastero di Pietra Demone (l’attuale Colle Cima di Coppi), sorto sui resti del sacello del sabino Giove Cacuno, San Domenico di Sora, sotto l’abile guida dell’abbate Donnoso, imparò a padroneggiare le possenti armi spirituali che gli avrebbero permesso di sconfiggere, nella solitudine dei Monti Lucretili, il suo grande nemico, il Diavolo. Ma la Storia ama prendersi gioco delle nostre umane certezze ed infatti circa 600 anni dopo il Santo di Pietra Demone, un altro diavolo ben più terreno e che, per ironia del destino, avrà anche lui il nome di Domenico, sceglierà Pietra Demone come sua dimora: stiamo parlando di Memmo o Memmio Picone. Questo nome è senz’altro sconosciuto ai più ma alla sua epoca, verso la fine del ‘500, rese insonni le notti di molti abitanti di Orvinio, allora Canemorto, della Valle Muzia e di quella Ustica. Il marchese Luigi Biondi, illustre archeologo e membro della Pontificia Accademia Romana di Archeologia ce ne ha lasciato una preziosa testimonianza nel 1811 :
“ I fianchi [di Pietra Demone] sono ricoperti da un bosco fittissimo d’alberi, che per più miglia si stende: e dove le diradate piante ne dinotano il fine, bello è lo scoprire da lungi or una or altra capanna, tutte di legname conteste, ed abitate da alcuni uomini, quasi selvaggi, colle loro Mogli, e coi Figli; seminudi tutti, e di un solo cibo contenti…Mostrano costoro a que’ pochi, che fino alle loro abitazioni pervengono, un grosso mortajo nel vivo sasso incavato, in che dicono, acquistata avendo siffatta scienza per tradizione, che una masnada antichissima di contrabbandieri, colassù dimorante, la fabricata polve pestasse…Progredendo in ver la cima del monte si veggono le reliquie di uno antico Castello distrutto, che similmente si nomò Pietra Demone e fu patria a Memmio Picone, famoso capo di masnadieri…”.
Al tempo di Memmio Picone e della sua masnada era papa Gregorio XIII, un ottimo papa ma che è passato alla storia più per la sua celebre riforma del calendario giuliano che non per il modo in cui cercò di risolvere il problema del brigantaggio. Già perché all’epoca il brigantaggio era, non solo nello Stato Pontificio ad onor del vero ma in tutta Italia, una vera piaga e Gregorio con le sue errate decisioni politiche, economiche e sociali non riuscì affatto a curarla. Infatti il nostro Memmio non era affatto un caso isolato: per chi oggi considera insicure le nostre città basterà ricordare che al tempo del bandito dei Lucretili nello Stato Pontificio si aggiravano liberamente innumerevoli bande di decine o addirittura centainaia di malfattori, veri e propri eserciti di fuorilegge, che agivano pressoché impuniti nella campagna romana e che osavano persino spingersi nel cuore di Roma per perpetrare i loro efferati crimini. Alla testa di queste bande c’erano signori e signorotti feudali come il celeberrimo duca di Marciano, Alfonso Piccolomini, ma anche preti scomunicati come il Prete Ardeatino o il famoso Prete da Guercino, c’erano banditi di umili origini come Marco Sciarra, il “Re di Campagna” ma anche veri e propri criminali come Catena, al secolo Bartolomeo Vallante (la cui morte nel gennaio del 1581 ebbe come testimone eccezionale Montaigne che ce ne ha lasciato une dettagliata descrizione nel suo journal de voyage en Italie). Gregorio XIII nella primavera del 1585, forse presentendo la morte ormai prossima ed esasperato dal non potere venire a capo del banditismo, lanciò una violenta offensiva armata contro i briganti, ingaggiando persino un reggimento di guardie corse, avvezze ai combattimenti in zone montagnose.
Il 12 marzo del 1585 una compagnia della guardia pontificia, risalendo la valle del Licenza, riuscì ad intecettare a Percile la banda di Memmio Picone e nel violento scontro a fuoco che ne seguì Memmio perse la vita. Gregorio XIII tuttavia non poté gioire a lungo di questa vittoria perché appena un mese dopo, il 10 aprile del 1585, morì dopo una brevissima malattia. La lotta al banditismo però non cessò affatto con la morte di Gregorio XIII, anzi il suo successore, Sisto V, testimone degli scarsi risultati raggiunti dal predecessore in questa lotta, ne fece la sua principale missione terrena! Il guardiano dei porci, come chiameranno Sisto V i suoi detrattori per sottolinearne le umilissime origini (essendo figlio di un povero contadino della Marca Anconetana), fu un papa straordinariamente risoluto ed intransigente: Il Belli in suo celebre sonetto lo definì “Er papa tosto, er papa matto che nnu la perdono’ nneppur’a Ccristo” ed aveva ragione!
“Er papa tosto”, che aveva perso l’amatissimo nipote Francesco Peretti in un terribile agguato di briganti proprio nel cuore di Roma, non appena eletto al soglio pontificio mise subito le cose in chiaro: il giorno della sua elezione non concesse infatti nessuna grazia ai condannati, come era invece in uso ormai da secoli. Abbassò l’età per essere condannati a morte a 14 anni e fece giustiziare, decapitare e squartare talmente tanti briganti che si disse, nel settembre del 1585, che si erano viste più teste mozzate sul Ponte Sant’Angelo che meloni ai mercati! Ma il banditismo si rivelò un fenomeno inaspettatamente tosto anche per un papa del calibro di Sisto V come gli abitanti di Percile presto capirono: purtroppo il vuoto lasciato dalla morte di Memmio Picone venne presto riempito da un altro brigante, anche lui, per ironia della sorte, di nome Domenico, un nome che forse ben si addice a santi e banditi: Domenico o Minno Fantasia, detto anche il Roscio di Vicovaro, prese al balzo il testimone lasciatogli da Memmio Picone e tormentò a sua volta i Monti Lucretili e dintorni per oltre tre decenni prima di essere catturato e decapitato a Roma nel 1621.
Filippo Tani