Da Albi a Canemorto

“Perchè Collevaccino era tanto interessato all’Abazia di Santa Maria del Piano?”

Pietro Collevaccino se lo aspettava: l’abate di Santa Maria del Piano non si sarebbe docilmente sottomesso alla sua autorità episcopale. Se lo aspettava ma non era minimamente intimidito dalle vigorose proteste del potente abate: se voleva lo scontro lo avrebbe avuto!

Insigne giurista e notaio apostolico, scaltro e dotto diplomatico al servizio di pontefici memorabili come Innocenzo III ed Onorio III, Pietro Collevaccino aveva dovuto fronteggiare nella sua lunga carriera avversari temibili come il celebre e spietato Simone IV, conte di Monfort ma anche i tutt’altro che docili conti di Toulouse, Foix, Comminges e Narbonne.

Dopo averli tutti rimessi in riga, ricondotti alla ragione dell’ortodossia cristiana e convinti dell’assurdità dell’eresia catara, li aveva accolti di nuovo sotto l’ala protettrice di San Pietro. Tutti o quasi tutti giacché, a dire il vero, il conte di Monfort era stato un osso troppo duro anche per lui: la sua sete inestinguibile di potere era stata appena arginata dall’intervento del nostro Pietro, che era comunque riuscito nella non facile missione di sottrarre alle grinfie del conte l’infante aragonese, suo prigioniero, riconsegnandolo di persona alla corte di Aragona. Il non essere riuscito a domare il conte di Monfort aveva forse lasciato nel suo animo la sensazione acre di una sconfitta ma Pietro aveva un nome “apostolico” che la diceva lunga sulla sua caparbietà e forza d’animo. Di ritorno dalla sua missione diplomatica nella Francia meridionale, era stato nominato cardinale-presbitero di San Lorenzo in Damaso ed infine, nell’aprile del 1217, il neoeletto pontefice Onorio III lo aveva scelto come cardinale-vescovo della diocesi suburbicaria della Sabina. Ed è in questo esatto momento che la sua mirabile vita intersecò quella degli abitanti di Canemorto o, per meglio dire, dei signori che allora governavano Canemorto ed i villaggi limitrofi. Giacché Pietro, non appena eletto vescovo suburbicario della Sabina, pose subito il suo attento sguardo sull’abbazia di Santa Maria del Piano che godeva, ai suoi occhi, di un’insolente indipendenza e che, per uno spirito combattivo come il suo, che aveva partecipato alla feroce crociata contro gli albigesi, rappresentava un non troppo difficile avversario.

Ne nacque pressoché istantaneamente una disputa ecclesiastica che, per nostra grande fortuna, la “Bulla inter Episcopum Sabinensem et Abbatem de Putealia” del “Registrum Iurisdictionis episcopatus sabinensis” ci ha consegnato intatta. Quali erano dunque gli avversari di Pietro Collevaccino in questa disputa? A difesa dell’abate di Santa Maria del Piano la Bulla ci dice che si schierarono, oltre ai suoi clerici, i signori laici dei villaggi di Pozzaglia, Montorio, Rocca Salice, Pietra Balda, Petescia e Canemorto, villaggi da essa controllati. Di questi signori, in un periodo in cui le fonti sono davvero, e non per fare superfluo sfoggio di superlativi, rarissime, conosciamo alcuni nomi, probabilmente quelli dei più importanti: Andrea da Canemorto, Giovanni da Pozzaglia e Gentile da Pietraforte. Ma non basta, sappiamo anche che la loro difesa dinanzi al sommo Pontefice venne affidata a Pandolfo, probabile fratello di Andrea da Canemorto.

Leggendo i “Regesta Honorii Papae III” scopriamo che Pandolfo fu suddiacono e legato apostolico del Papa nella Marca Anconetana, regione che percorse in lungo e largo, da Fermo ad Osimo, da Ancona a Senigallia, per difendere gli interessi del Papa. Insomma, Pandolfo non era certo il primo venuto e possiamo immaginare che l’abate di Santa Maria del Piano avesse piena fiducia nelle sue capacità diplomatiche e giuridiche per affidargli la difesa dei loro interessi dinanzi al Pontefice. Ma in tutta questa vicenda rimane ancora una grossa domanda senza risposta, domanda non di poco conto visto che si tratta della più importante: Perché Pietro Collevaccino era così interessato all’abbazia di Santa Maria del Piano?

L’abbazia in effetti controllava la riva sinistra del Turano, un modesto territorio che aveva per limiti approssimativi Rocca Salice a nord, Vallebona e Canemorto ad ovest, Portica e Vallinfreda a sud. Questo territorio appare agli occhi di un distratto osservatore moderno come completamente marginale, al di fuori di tutti i principali assi di comunicazione dell’Italia centrale, poco popolato e montagnoso. Ma all’epoca del nostro racconto la valle del Turano rappresentava un importante asse viario e commerciale che metteva in comunicazione il Reatino con la Marsica e l’Italia meridionale. Ed è proprio a causa di ciò che questo territorio era stato assai spesso al centro di dispute tra le diocesi di Rieti e della Sabina, senza menzionare l’arrivo dei normanni che con il loro neonato regno di Sicilia, avevano, verso la metà del XII secolo, rimescolato completamente le carte in tavola, aggiungendo alla disputa territoriale un altro protagonista di rilievo, la diocesi della Marsica. Nel X secolo la riva sinistra del Turano aveva fatto parte della diocesi della Sabina per essere poi incorporata nella diocesi di Rieti probabilmente già nell’XI secolo e certamente nel XII secolo. Pur facendo formalmente parte della diocesi di Rieti, l’abbazia ne era di fatto indipendente, gestendo in modo autonomo le chiese ed i villaggi che ricadevano sotto il suo controllo.

Ma al termine di questa incessante altalena, agli inizi del XIII secolo, la riva sinistra del Turano era stata di nuovo incorporata nella diocesi di Sabina. Evento funesto per l’abate di Santa Maria del Piano cosi come per i clerici ed i signori laici dei villaggi da essa controllati che videro subito, e non a torto, il pericolo concreto di perdere la loro preziosa autonomia. Pericolo che si materializzò infatti puntualmente con l’elezione a vescovo della Sabina di Petrus Collivaccinus, il nostro Pietro Collevaccino! La causa ecclesiastica venne affidata dalla cancelleria pontificia di Onorio III a Leone Brancaleoni, cardinale-presbitero di Santa Croce in Gerusalemme, profondo conoscitore dei giochi di potere locali dato che la sua famiglia si era insediata nella zona già dalla metà dell’XI secolo. Il verdetto venne emesso nella sede papale del Laterano due giorni prima delle none di marzo del secondo anno di pontificato di Onorio III (il 6 marzo del 1218).

Leggendo la sentenza scopriamo che Pietro Collevaccino lasciava inaspettatamente all’abate di Santa Maria del Piano gran parte dei lucrosi introiti derivanti dalla riscossione delle decime e mortuaria, accontentandosi soltanto di due moggi annui di frumento ed altrettanti di spelta, da riscuotere ogni anno in occasione della festa di San Michele Arcangelo nel mese di settembre. All’abate veniva anche lasciata la facoltà di scegliere liberamente i suoi clerici. Ma non lasciamoci illudere da queste concessioni, che si rivelarono purtroppo le uniche fatte dal nostro vescovo. Pietro Collevaccino si riservava infatti la facoltà di confermare i clerici eletti dall’abate di Santa Maria del Piano entro 20 giorni dalla loro elezione e di destituirli in caso di comportamento non consono ai canoni della Chiesa o se si fossero macchiati di “simoniacam pravitatem”.

La sentenza ribadiva inoltre la piena autorità episcopale che Pietro Collevacino aveva su tutti i presbiteri e clerici dei villaggi menzionati, che gli dovevano giurare fedeltà. L’abate di Santa Maria del Piano non si sarebbe più dovuto occupare di cause matrimoniali né avrebbe potuto infliggere senza espressa autorizzazione del vescovo sentenze di scomunica o relative a casi di bambini soffocati, che a quanto pare dovevano costituire un fenomeno così frequente da essere menzionato esplicitamente nel documento! E per spazzare via ogni dubbio residuo, la sentenza si chiudeva affermando con tono perentorio che chiunque avesse tentato di infrangere quanto da essa stabilito o avesse anche solo avuto l’ardire di contraddirla avrebbe provocato l’indignazione dei beati ed onnipotenti Santissimi Apostoli Pietro e Paolo. E fu così che nella primavera del lontano 1218 l’abbazia di Santa Maria del Piano perse a causa di Pietro Collevaccino la sua tanto preziosa indipendenza ma non certo la sua importanza visto che avrebbe ancora avuto dinanzi a sé almeno altri due secoli di prosperità prima del suo definitivo abbandono sul finire del XV secolo.

Filippo Tani

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