L’acronimo “WWOOF” originariamente stava per Working Weekends On Organic Farms, oggi ha il significato World Wide Opportunities on Organic Farms. Si tratta di una rete internazionale che mette in contatto fattorie biologiche, realtà rurali di vario tipo, individuali, collettive, familiari con persone che in cambio di vitto e alloggio offrono una mano nei lavori agricoli. Ma l’ambito di scambio è molto più ampio del semplice lavoro.
Le persone che arrivano, dette wwoofers, presso le fattorie ospitanti, dette hosts, si immergono nella quotidianità di una vita agricola e, provenendo in genere dalla città, sperimentano una vita a contatto con la natura completamente diversa da quella da cui provengono. I periodi di permanenza variano da una settimana ad alcuni mesi, alcuni ritornano, con alcuni si rimane in contatto, di altri non si sa più niente.
Capita che, dopo alcuni anni qualcuno richiami per raccontare che ha finalmente trovato un terreno da acquistare per iniziare un’attività agricola, per realizzare un sogno, e chiede consigli e… ti commuovi perché ti accorgi di essere stato una piccola ma importante tappa nella loro vita!
Sono sette anni che ospitiamo persone di età e provenienze diverse, alcuni sono arrivati a piedi, alcuni in coppia, la maggior parte viaggia da sola. Le storie sono tante quante sono le persone ed ogni volta è un pezzetto di mondo che arriva e arricchisce chi ospita. I wwoofers possono arrivare da molto lontano, Giappone, Brasile, Australia, ma anche da molto vicino, da Roma o Castelnuovo di Farfa ad esempio! Ogni volta è un esercizio di convivenza che aiuta a non chiudersi in piccole rigidità fatte di abitudini in fondo superabili e, allo stesso tempo, a riconoscere quali sono quegli ambiti personali invece importanti che vanno preservati in quanto tali, in altre parole, imparare a riconoscere le necessità altrui e le proprie e imparare a rispettarle, tutte.
Tante persone sono passate ed ognuna ha poi portato via un pezzetto di questo luogo nel proprio cuore, non solo della vita in comune con noi, ma anche del luogo che le ha ospitate. Julie e Cecilia da Seattle, le prime giovanissime wwoofer che arrivarono qui sette anni fa, appassionate di Tolkien esclamarono estasiate “ma questa è la Terra di mezzo!” guardando le montagne che circondano la nostra casa. Giulia da Roma: “Cercavo una realtà nelle vicinanze e non conoscevo la Sabina, ancor meno l’Alta Sabina e mi sono meravigliata di scoprire un luogo tanto ricco di biodiversità, curato, dall’aria leggera, così vicino a Roma” Andrea da Palestrina: “Sono arrivato ad Orvinio a piedi attraversando i monti Lucretili. Avendo vissuto in un paese più grande, mi ha colpito che qui la natura è molto predominante e avvolge completamente un borgo storico molto bello.”
Nelle immediate vicinanze di Orvinio, lungo la strada che porta alle Pratarelle e poi a Scandriglia, sorge, su un’altura e posta a guardia della valle Muzia, tra ruderi disabitati, la chiesa medievale, poi ricostruita in forme rinascimentali, di Santa Maria di Vallebona. Essa appartiene indissolubilmente alla storia del paese di Orvinio ed a tutti gli abitanti, che ad essa sono molto legati, tanto da farne ripetutamente durante l’anno meta di processioni. La Storia di questo luogo si perde nei meandri del tempo, si narra che “un giorno un pastore stava tagliando l’erba nei pressi della vecchia Vallebona. Ad un tratto, udì un grido e guardando il suo falcetto lo vide sporco di sangue. Cercando fra le foglie vide l’immagine della Madonna, ferita ad un labbro. Riavutosi dallo stupore, prese l’immagine e la portò nella Chiesa di San Nicola ad Orvinio, ma la mattina seguente era scomparsa: era tornata a Vallebona. Allora i fedeli, capendo che la Madonna aveva ormai scelto la sua casa, raccolsero i fondi per far edificare una chiesa sui ruderi del vecchio castello”. Il nuovo santuario, precedente all’originario realizzato a seguito del miracolo, venne edificato nel 1643, secondo il registro conservato nell’abbazia di Farfa, precisamente nel vecchio borgo di Vallebona, ormai disabitato dato che i suoi abitanti l’avevano abbandonato trasferendosi in maggior parte ad Orvinio, allora chiamato Canemorto. Nel 1723 si documenta che ne divenne la protettrice. La chiesa si presenta con un prospetto sobrio e semplice, dovuto anche al fatto che per la sua costruzione si contò solo sulle donazioni popolari. L’impianto è infatti a unica navata, con tetto a capanna con due falde, in legno e copertura in coppi, l’interno, invece, venne impreziosito da tele ed affreschi opera di Vincenzo Manenti e di altre maestranze locali, una parte di essi è purtroppo andata perduta a causa del degrado del controsoffitto a cassettoni della chiesa poi crollato, oggi non più esistente. L’interno è suddiviso dai due altari laterali, con due tele di carattere mariano e la parte dell’altare principale, realizzata interamente dal Manenti, con decorazioni a tutta parete e al centro la storica immagine della Madonna, intenta ad allattare il piccolo Gesù con il seno.
La chiesa, molto amata dagli abitanti, è inserita in un contesto di particolare bellezza naturalistica dovuta alla presenza di preesistenze anteriori, presumibilmente di epoca medievale precedenti all’età dei Comuni, oggi si possono osservare tracce superstiti delle antiche mura difensive, un perimetro di cinta quasi intero, con i resti di tre torri di difesa, di cui una alta una ventina di metri, in precedenza ancora più alta prima che un fulmine ne facesse rovinare a terra una parte. Essa era forse la torretta di guardia divenuta in seguito il mastio di un castello. Non possiamo saperlo. L’effige della Madonna di Vallebona venne resa canonica ad opera dell’incisore orviniese Girolamo Frezza che nel 1740, poco prima di morire, ne fece un’incisione poi riprodotta su molte cartoline, fino ai nostri giorni.Oggi, a seguito di progetti di recupero, si sta restaurando l’antico cammino della via Crucis che, partendo dalla valle, sale sino al santuario, aprendosi a scenari e panorami che conciliano la devozione con la scoperta di questi luoghi del cuore.
La bella e signorile fontana pubblica di Orvinio sembra guardare dall’alto in basso i distratti passanti, con un’aria di nobiltà e forse anche un pizzico di supponenza. Sa infatti quanto i suoi limpidi zampilli siano costati fatica e denaro sonante a tutti gli orviniesi: Il desiderio di avere una fontana pubblica perenne non fu infatti impresa facile da realizzare e ne è testimonianza la storia, ricca di colpi di scena, che ci accingiamo a raccontare e che precede di oltre sessant’anni l’inaugurazione della fontana pubblica attuale, avvenuta nel novembre del 1885.
Nel marzo del 1821 alle porte di Canemorto si presentò un livornese, un certo Francesco Doni, che subito riscosse “credenza di uomo perito nella Idraulica facoltà”. Già perché “la mancanza nel Comune di Canemorto di una fontana pubblica e perenne tenne mai sempre angustiato il popolo del medesimo”. Il nostro Toscano era infatti un assai abile millantatore ed il primo a cadere nella trappola fu niente poco di meno che il Governatore di Canemorto.
Sembra infatti che “il Governatore allora di Canemorto si mostrasse pel primo credulo alle millantazioni del Doni”. Convinto dalle “sesquipedali parole, di cui van bisognosi gli Uomini di Toscana che il nostro perito nell’idraulica arte avrebbe reperito la tanta agognata Acqua, il Governatore di Canemorto ordinò il mantenimento di quel sedicente Idraulico a spese pubbliche fino a che tornato fosse da Roma a Canemorto Filippo Bernabei, facente funzione di Gonfaloniere”. Quest’ultimo, appena tornato a Canemorto, venne accolto come un novello pater patriae, tanto era il desiderio per la realizzazione di questa fontana perenne. Ma Filippo Bernabei, uomo evidentemente prudente, “non volle correre sì di galoppo come il Governatore avea caminato, né volle sbilanciare o parola, od arbitrio senza il voto e l’assenso di un Consiglio publico”.
Consiglio pubblico che sappiamo si tenne il 4 Aprile del 1821 ed in cui si discusse con toni animati, fino a rasentare il fanatismo, sul modo di finanziare la tanta desiderata opera pubblica. Filippo Bernabei, insieme a Giacomo Marcangeli, propose di anticipare la somma di 138 scudi per finanziare la spesa prevista, a patto di riceverne “in qualche modo il rimborso o per mezzo di riporto o nella esazione dei crediti della Comunità”. Questa somma era all’epoca, parliamo dello Stato Pontificio di Papa Pio VII, una bella somma di denaro. Basti leggere il diario di Roma del 1822 per rendersene conto: lo stipendio annuo di un maestro delle elementari a Rocca di Papa era di 80 scudi, l’onorario annuo per la condotta chirurgica nel comune di Ceccano, a Frosinone, era di 168 scudi e per la bella e signorile fontana pubblica di Orvinio sembra guardare dall’alto in basso i distratti passanti, con un’aria di nobiltà e forse anche un pizzico di supponenza. Sa infatti quanto i suoi limpidi zampilli siano costati fatica e denaro sonante a tutti gli orviniesi: Il desiderio di avere una fontana pubblica perenne non fu infatti impresa facile da realizzare e ne è testimonianza la storia, ricca di colpi di scena, che ci accingiamo a raccontare e che precede di oltre sessant’anni l’inaugurazione della fontana pubblica attuale, avvenuta nel novembre del 1885.
Nel marzo del 1821 alle porte di Canemorto si presentò un livornese, un certo Francesco Doni, che subito riscosse “credenza di uomo perito nella Idraulica facoltà”. Già perché “la mancanza nel Comune di Canemorto di una fontana pubblica e perenne tenne mai sempre angustiato il popolo del medesimo”. Il nostro Toscano era infatti un assai abile millantatore ed il primo a cadere nella trappola fu niente poco di meno che il Governatore di Canemorto. Sembra infatti che “il Governatore allora di Canemorto si mostrasse pel primo credulo alle millantazioni del Doni”. Convinto dalle “sesquipedali parole, di cui van bisognosi gli Uomini di Toscana che il nostro perito nell’idraulica arte avrebbe reperito la tanta agognata Acqua, il Governatore di Canemorto ordinò il mantenimento di quel sedicente Idraulico a spese pubbliche fino a che tornato fosse da Roma a Canemorto Filippo Bernabei, facente funzione di Gonfaloniere”. Quest’ultimo, appena tornato a Canemorto, venne accolto come un novello pater patriae, tanto era il desiderio per la realizzazione di questa fontana perenne. Ma Filippo Bernabei, uomo evidentemente prudente, “non volle correre sì di galoppo come il Governatore avea caminato, né volle sbilanciare o parola, od arbitrio senza il voto e l’assenso di un Consiglio publico”.
Consiglio pubblico che sappiamo si tenne il 4 Aprile del 1821 ed in cui si discusse con toni animati, fino a rasentare il fanatismo, sul modo di finanziare la tanta desiderata opera pubblica. Filippo Bernabei, insieme a Giacomo Marcangeli, propose di anticipare la somma di 138 scudi per finanziare la spesa prevista, a patto di riceverne “in qualche modo il rimborso o per mezzo di riporto o nella esazione dei crediti della Comunità”. Questa somma era all’epoca, parliamo dello Stato Pontificio di Papa Pio VII, una bella somma di denaro. Basti leggere il diario di Roma del 1822 per rendersene conto: lo stipendio annuo di un maestro delle elementari a Rocca di Papa era di 80 scudi, l’onorario annuo per la condotta chirurgica nel comune di Ceccano, a Frosinone, era di 168 scudi e per volsero ad infondere nell’avventuriero sedicente Perito Idraulico Doni quella scienza che non avea né fare si che la bramata acqua si rinvenisse. Onde accadde che il Doni prendesse vergognosamente la fuga, e la misera popolazione di Canemorto rimanesse a dolersi dell’accaduto inganno”. Il nostro perito idraulico prese dunque la fuga, dopo avere intascato oltre 200 scudi, lasciando nello sconcerto i consiglieri comunali, già preoccupati dal come riparare i danni arrecati alla stalla della famiglia Taschetti.
I quali consiglieri si rivolsero subito alla sacra Congregazione del buon governo, ma questa “e disapprovando la impresa e rigettando le umiliate preghiere diede anzi ordine al Delegato di Rieti di prender cognizione di questo fatto arbitrario e di far gravitare sopra di essi solamente le spese finora occorse, ed anche i danni derivati ai Vicini, ed ogni altra relativa conseguenza”. Filippo Bernabei e Giacomo Marcangeli vollero, giustamente, essere rimborsati della spesa da loro sostenuta e ne nacque una accesa disputa con relativa causa legale, per noi lettori di Orvinium evento quanto mai fausto perché ha permesso a questa vicenda di scampare a due secoli di oblio e giungere fino a noi. Per mancanza di spazio non possiamo purtroppo dilungarci sulle alterne vicende di questa causa, lunga e complessa. Ci limitiamo a ricordare che in prima istanza il Segretario della sacra congregazione del Buon Governo, l’illustrissimo e reverendissimo Monsignor Giovanni Conversi, nell’udienza tenutasi il 26 Settembre del 1823, si pronunziò a favore di un rimborso delle somme versate “sia colla solidale condanna di ciascuno degli obbligati uti singuli sia colla condanna dei medesimi pro virili”. Ma proprio quando i nostri due protagonisti stavano per essere rimborsati il segretario del Buon Governo ebbe la brillante idea di morire, lasciando la causa in lascito al suo successore, il cardinale Mario Mattei.
Il quale, così almeno ci è dato di capire, in secondo grado di processo sembrò esprimersi a favore delle suppliche degli “autori di quell’acquatico sconcerto” (cioè i consiglieri comunali di Canemorto), di fare cioè “un riporto generale su tutta la popolazione per non sentirne eglino soli il peso di un più ristretto riporto e che andasse a colpire i soli supplicanti autori e complici della spesa incautamente incontrata”. Purtroppo, non conosciamo l’esito del processo ed il documento consultato per quest’articolo si interrompe, è proprio il caso di dirlo, sul più bello senza dirci come andò realmente a finire questa intricata faccenda giudiziaria che coinvolse la comunità di Canemorto negli anni Venti dell’800. Ma in fondo è meglio così perché ogni lettore potrà costruirne un finale a propria guisa. A me piace pensare che, dopo avere letto questa storia, i nostri lettori si soffermeranno davanti alla bella fontana pubblica di Orvinio e sorrideranno pensando “all’acquatico sconcerto” che l’ha preceduta ed al sogno, realizzato sessant’anni dopo, di averne finalmente una vera, fatta di pietra e non solo delle millantate, sesquipedali parole del nostro sedicente perito!
Il dialetto orviniese è una parlata appartenente ai dialetti mediani italiani, nello specifico esso appartiene alla famiglia dei dialetti dell’Italia centrale sviluppatisi lungo l’asse Ravenna – Roma sin dai tempi più antichi. Quest’area, storicamente poi circoscritta dallo Stato Pontificio, ha generato una parlata alquanto omogenea seppur distinta in diversi ceppi autonomi. L’orviniese appartiene al dialetto sabino, dialetto comunque esteso anche alle aree del Cicolano e dell’Aquilano. In questo ambito il dialetto orviniese prende molte influenze dell’abruzzese:il suono “duro” delle vocali”, rispetto a quello più dolce del sabino propriamente detto (asse della Salaria). Il dialetto orviniese è pertanto contraddistinto dai classici termini reatini (ecco e loco per dire qui e li, ad esempio; oppure i termini stracco per stanco, termine che anche il cantautore Lucio Battisti, originario di Poggio Bustone, inserì in una sua canzone, le allettanti promesse). Uno studio molto elaborato del dialetto orviniese venne eseguito da Natalino Forte che, nel 2005, pubblicò un libro molto bello ricco di aneddoti, racconti, e poesie anche tradotte da Trilussa. Nel testo, oltre a raccontare la vita del paese, le persone e i fatti a loro collegati, c’è la volontà di “normare” e rendere codificabile la lingua orviniese a tutto campo. A tale scopo sono presenti le strutture grammaticali delle frasi, i verbi, le regole della grammatica per poter formulare le frasi e coniugare i verbi, che in alcuni casi aprono prospettive molto diverse rispetto all’italiano standard, come nella coniugazione dell’indicativo passato remoto e nel futuro del verbo andare: ì; isti, ì, jèmmo; jèste, iru; irraio; irrai; irrà; irrau. Oppure, sempre negli stessi tempi del verbo volere: vòzze; volisti; vòzze; volemmo; volèste; vozzeru; orraio; orrai; orrà; orrau.
Il dialetto orviniese si esprime anche nei vari soprannomi che le famiglie si sono date nel corso dei secoli, così mio nonno Nicola Ragaglini era soprannominato Lu Negusse, forse per qualche strana assonanza con il “Negus neghesti”, l’imperatore “re dei re” d’Etiopia incoronato nel 1930. Altri soprannomi erano stati dati da un erede a quale ci si riferiva poi per la discendenza (de Merulone, de Barzano) di fatti accaduti (de l’anime sante, etc.). La peculiarità del dialetto venne utilizzata anche nella composizione di poesie, sonetti cantati e rappresentazioni teatrali, che nel corso degli anni si sono rappresentate nelle feste di paese e in occasioni speciali. Tutte volte a raccontare la vita e le abitudini degli abitanti del borgo. Questo lascito è ancora vivo oggi, dove il dialetto viene ancora parlato per le vie del borgo e usato nelle conversazioni tra la gente. Il suo ricordo e la sua permanenza sono un segno vitale dell’energia che la parlata esprime dei caratteri e nelle peculiarità delle persone che vivono a Orvinio. Dove il viverci per tanti non se cagna cò nisciunara città dellu munnu, e dove le persone Orvinio, non lu lasserrau mai solu, come scrisse Natalino Forte in una sua poesia.
“Perchè Collevaccino era tanto interessato all’Abazia di Santa Maria del Piano?”
Pietro Collevaccino se lo aspettava: l’abate di Santa Maria del Piano non si sarebbe docilmente sottomesso alla sua autorità episcopale. Se lo aspettava ma non era minimamente intimidito dalle vigorose proteste del potente abate: se voleva lo scontro lo avrebbe avuto!
Insigne giurista e notaio apostolico, scaltro e dotto diplomatico al servizio di pontefici memorabili come Innocenzo III ed Onorio III, Pietro Collevaccino aveva dovuto fronteggiare nella sua lunga carriera avversari temibili come il celebre e spietato Simone IV, conte di Monfort ma anche i tutt’altro che docili conti di Toulouse, Foix, Comminges e Narbonne.
Dopo averli tutti rimessi in riga, ricondotti alla ragione dell’ortodossia cristiana e convinti dell’assurdità dell’eresia catara, li aveva accolti di nuovo sotto l’ala protettrice di San Pietro. Tutti o quasi tutti giacché, a dire il vero, il conte di Monfort era stato un osso troppo duro anche per lui: la sua sete inestinguibile di potere era stata appena arginata dall’intervento del nostro Pietro, che era comunque riuscito nella non facile missione di sottrarre alle grinfie del conte l’infante aragonese, suo prigioniero, riconsegnandolo di persona alla corte di Aragona. Il non essere riuscito a domare il conte di Monfort aveva forse lasciato nel suo animo la sensazione acre di una sconfitta ma Pietro aveva un nome “apostolico” che la diceva lunga sulla sua caparbietà e forza d’animo. Di ritorno dalla sua missione diplomatica nella Francia meridionale, era stato nominato cardinale-presbitero di San Lorenzo in Damaso ed infine, nell’aprile del 1217, il neoeletto pontefice Onorio III lo aveva scelto come cardinale-vescovo della diocesi suburbicaria della Sabina. Ed è in questo esatto momento che la sua mirabile vita intersecò quella degli abitanti di Canemorto o, per meglio dire, dei signori che allora governavano Canemorto ed i villaggi limitrofi. Giacché Pietro, non appena eletto vescovo suburbicario della Sabina, pose subito il suo attento sguardo sull’abbazia di Santa Maria del Piano che godeva, ai suoi occhi, di un’insolente indipendenza e che, per uno spirito combattivo come il suo, che aveva partecipato alla feroce crociata contro gli albigesi, rappresentava un non troppo difficile avversario.
Ne nacque pressoché istantaneamente una disputa ecclesiastica che, per nostra grande fortuna, la “Bulla inter Episcopum Sabinensem et Abbatem de Putealia” del “Registrum Iurisdictionis episcopatus sabinensis” ci ha consegnato intatta. Quali erano dunque gli avversari di Pietro Collevaccino in questa disputa? A difesa dell’abate di Santa Maria del Piano la Bulla ci dice che si schierarono, oltre ai suoi clerici, i signori laici dei villaggi di Pozzaglia, Montorio, Rocca Salice, Pietra Balda, Petescia e Canemorto, villaggi da essa controllati. Di questi signori, in un periodo in cui le fonti sono davvero, e non per fare superfluo sfoggio di superlativi, rarissime, conosciamo alcuni nomi, probabilmente quelli dei più importanti: Andrea da Canemorto, Giovanni da Pozzaglia e Gentile da Pietraforte. Ma non basta, sappiamo anche che la loro difesa dinanzi al sommo Pontefice venne affidata a Pandolfo, probabile fratello di Andrea da Canemorto.
Leggendo i “Regesta Honorii Papae III” scopriamo che Pandolfo fu suddiacono e legato apostolico del Papa nella Marca Anconetana, regione che percorse in lungo e largo, da Fermo ad Osimo, da Ancona a Senigallia, per difendere gli interessi del Papa. Insomma, Pandolfo non era certo il primo venuto e possiamo immaginare che l’abate di Santa Maria del Piano avesse piena fiducia nelle sue capacità diplomatiche e giuridiche per affidargli la difesa dei loro interessi dinanzi al Pontefice. Ma in tutta questa vicenda rimane ancora una grossa domanda senza risposta, domanda non di poco conto visto che si tratta della più importante: Perché Pietro Collevaccino era così interessato all’abbazia di Santa Maria del Piano?
L’abbazia in effetti controllava la riva sinistra del Turano, un modesto territorio che aveva per limiti approssimativi Rocca Salice a nord, Vallebona e Canemorto ad ovest, Portica e Vallinfreda a sud. Questo territorio appare agli occhi di un distratto osservatore moderno come completamente marginale, al di fuori di tutti i principali assi di comunicazione dell’Italia centrale, poco popolato e montagnoso. Ma all’epoca del nostro racconto la valle del Turano rappresentava un importante asse viario e commerciale che metteva in comunicazione il Reatino con la Marsica e l’Italia meridionale. Ed è proprio a causa di ciò che questo territorio era stato assai spesso al centro di dispute tra le diocesi di Rieti e della Sabina, senza menzionare l’arrivo dei normanni che con il loro neonato regno di Sicilia, avevano, verso la metà del XII secolo, rimescolato completamente le carte in tavola, aggiungendo alla disputa territoriale un altro protagonista di rilievo, la diocesi della Marsica. Nel X secolo la riva sinistra del Turano aveva fatto parte della diocesi della Sabina per essere poi incorporata nella diocesi di Rieti probabilmente già nell’XI secolo e certamente nel XII secolo. Pur facendo formalmente parte della diocesi di Rieti, l’abbazia ne era di fatto indipendente, gestendo in modo autonomo le chiese ed i villaggi che ricadevano sotto il suo controllo.
Ma al termine di questa incessante altalena, agli inizi del XIII secolo, la riva sinistra del Turano era stata di nuovo incorporata nella diocesi di Sabina. Evento funesto per l’abate di Santa Maria del Piano cosi come per i clerici ed i signori laici dei villaggi da essa controllati che videro subito, e non a torto, il pericolo concreto di perdere la loro preziosa autonomia. Pericolo che si materializzò infatti puntualmente con l’elezione a vescovo della Sabina di Petrus Collivaccinus, il nostro Pietro Collevaccino! La causa ecclesiastica venne affidata dalla cancelleria pontificia di Onorio III a Leone Brancaleoni, cardinale-presbitero di Santa Croce in Gerusalemme, profondo conoscitore dei giochi di potere locali dato che la sua famiglia si era insediata nella zona già dalla metà dell’XI secolo. Il verdetto venne emesso nella sede papale del Laterano due giorni prima delle none di marzo del secondo anno di pontificato di Onorio III (il 6 marzo del 1218).
Leggendo la sentenza scopriamo che Pietro Collevaccino lasciava inaspettatamente all’abate di Santa Maria del Piano gran parte dei lucrosi introiti derivanti dalla riscossione delle decime e mortuaria, accontentandosi soltanto di due moggi annui di frumento ed altrettanti di spelta, da riscuotere ogni anno in occasione della festa di San Michele Arcangelo nel mese di settembre. All’abate veniva anche lasciata la facoltà di scegliere liberamente i suoi clerici. Ma non lasciamoci illudere da queste concessioni, che si rivelarono purtroppo le uniche fatte dal nostro vescovo. Pietro Collevaccino si riservava infatti la facoltà di confermare i clerici eletti dall’abate di Santa Maria del Piano entro 20 giorni dalla loro elezione e di destituirli in caso di comportamento non consono ai canoni della Chiesa o se si fossero macchiati di “simoniacam pravitatem”.
La sentenza ribadiva inoltre la piena autorità episcopale che Pietro Collevacino aveva su tutti i presbiteri e clerici dei villaggi menzionati, che gli dovevano giurare fedeltà. L’abate di Santa Maria del Piano non si sarebbe più dovuto occupare di cause matrimoniali né avrebbe potuto infliggere senza espressa autorizzazione del vescovo sentenze di scomunica o relative a casi di bambini soffocati, che a quanto pare dovevano costituire un fenomeno così frequente da essere menzionato esplicitamente nel documento! E per spazzare via ogni dubbio residuo, la sentenza si chiudeva affermando con tono perentorio che chiunque avesse tentato di infrangere quanto da essa stabilito o avesse anche solo avuto l’ardire di contraddirla avrebbe provocato l’indignazione dei beati ed onnipotenti Santissimi Apostoli Pietro e Paolo. E fu così che nella primavera del lontano 1218 l’abbazia di Santa Maria del Piano perse a causa di Pietro Collevaccino la sua tanto preziosa indipendenza ma non certo la sua importanza visto che avrebbe ancora avuto dinanzi a sé almeno altri due secoli di prosperità prima del suo definitivo abbandono sul finire del XV secolo.
Nel monastero di Pietra Demone (l’attuale Colle Cima di Coppi), sorto sui resti del sacello del sabino Giove Cacuno, San Domenico di Sora, sotto l’abile guida dell’abbate Donnoso, imparò a padroneggiare le possenti armi spirituali che gli avrebbero permesso di sconfiggere, nella solitudine dei Monti Lucretili, il suo grande nemico, il Diavolo. Ma la Storia ama prendersi gioco delle nostre umane certezze ed infatti circa 600 anni dopo il Santo di Pietra Demone, un altro diavolo ben più terreno e che, per ironia del destino, avrà anche lui il nome di Domenico, sceglierà Pietra Demone come sua dimora: stiamo parlando di Memmo o Memmio Picone. Questo nome è senz’altro sconosciuto ai più ma alla sua epoca, verso la fine del ‘500, rese insonni le notti di molti abitanti di Orvinio, allora Canemorto, della Valle Muzia e di quella Ustica. Il marchese Luigi Biondi, illustre archeologo e membro della Pontificia Accademia Romana di Archeologia ce ne ha lasciato una preziosa testimonianza nel 1811 :
“ I fianchi [di Pietra Demone] sono ricoperti da un bosco fittissimo d’alberi, che per più miglia si stende: e dove le diradate piante ne dinotano il fine, bello è lo scoprire da lungi or una or altra capanna, tutte di legname conteste, ed abitate da alcuni uomini, quasi selvaggi, colle loro Mogli, e coi Figli; seminudi tutti, e di un solo cibo contenti…Mostrano costoro a que’ pochi, che fino alle loro abitazioni pervengono, un grosso mortajo nel vivo sasso incavato, in che dicono, acquistata avendo siffatta scienza per tradizione, che una masnada antichissima di contrabbandieri, colassù dimorante, la fabricata polve pestasse…Progredendo in ver la cima del monte si veggono le reliquie di uno antico Castello distrutto, che similmente si nomò Pietra Demone e fu patria a Memmio Picone, famoso capo di masnadieri…”.
Al tempo di Memmio Picone e della sua masnada era papa Gregorio XIII, un ottimo papa ma che è passato alla storia più per la sua celebre riforma del calendario giuliano che non per il modo in cui cercò di risolvere il problema del brigantaggio. Già perché all’epoca il brigantaggio era, non solo nello Stato Pontificio ad onor del vero ma in tutta Italia, una vera piaga e Gregorio con le sue errate decisioni politiche, economiche e sociali non riuscì affatto a curarla. Infatti il nostro Memmio non era affatto un caso isolato: per chi oggi considera insicure le nostre città basterà ricordare che al tempo del bandito dei Lucretili nello Stato Pontificio si aggiravano liberamente innumerevoli bande di decine o addirittura centainaia di malfattori, veri e propri eserciti di fuorilegge, che agivano pressoché impuniti nella campagna romana e che osavano persino spingersi nel cuore di Roma per perpetrare i loro efferati crimini. Alla testa di queste bande c’erano signori e signorotti feudali come il celeberrimo duca di Marciano, Alfonso Piccolomini, ma anche preti scomunicati come il Prete Ardeatino o il famoso Prete da Guercino, c’erano banditi di umili origini come Marco Sciarra, il “Re di Campagna” ma anche veri e propri criminali come Catena, al secolo Bartolomeo Vallante (la cui morte nel gennaio del 1581 ebbe come testimone eccezionale Montaigne che ce ne ha lasciato une dettagliata descrizione nel suo journal de voyage en Italie). Gregorio XIII nella primavera del 1585, forse presentendo la morte ormai prossima ed esasperato dal non potere venire a capo del banditismo, lanciò una violenta offensiva armata contro i briganti, ingaggiando persino un reggimento di guardie corse, avvezze ai combattimenti in zone montagnose.
Il 12 marzo del 1585 una compagnia della guardia pontificia, risalendo la valle del Licenza, riuscì ad intecettare a Percile la banda di Memmio Picone e nel violento scontro a fuoco che ne seguì Memmio perse la vita. Gregorio XIII tuttavia non poté gioire a lungo di questa vittoria perché appena un mese dopo, il 10 aprile del 1585, morì dopo una brevissima malattia. La lotta al banditismo però non cessò affatto con la morte di Gregorio XIII, anzi il suo successore, Sisto V, testimone degli scarsi risultati raggiunti dal predecessore in questa lotta, ne fece la sua principale missione terrena! Il guardiano dei porci, come chiameranno Sisto V i suoi detrattori per sottolinearne le umilissime origini (essendo figlio di un povero contadino della Marca Anconetana), fu un papa straordinariamente risoluto ed intransigente: Il Belli in suo celebre sonetto lo definì “Er papa tosto, er papa matto che nnu la perdono’ nneppur’a Ccristo” ed aveva ragione!
“Er papa tosto”, che aveva perso l’amatissimo nipote Francesco Peretti in un terribile agguato di briganti proprio nel cuore di Roma, non appena eletto al soglio pontificio mise subito le cose in chiaro: il giorno della sua elezione non concesse infatti nessuna grazia ai condannati, come era invece in uso ormai da secoli. Abbassò l’età per essere condannati a morte a 14 anni e fece giustiziare, decapitare e squartare talmente tanti briganti che si disse, nel settembre del 1585, che si erano viste più teste mozzate sul Ponte Sant’Angelo che meloni ai mercati! Ma il banditismo si rivelò un fenomeno inaspettatamente tosto anche per un papa del calibro di Sisto V come gli abitanti di Percile presto capirono: purtroppo il vuoto lasciato dalla morte di Memmio Picone venne presto riempito da un altro brigante, anche lui, per ironia della sorte, di nome Domenico, un nome che forse ben si addice a santi e banditi: Domenico o Minno Fantasia, detto anche il Roscio di Vicovaro, prese al balzo il testimone lasciatogli da Memmio Picone e tormentò a sua volta i Monti Lucretili e dintorni per oltre tre decenni prima di essere catturato e decapitato a Roma nel 1621.
Una domanda apparentemente strana ma che in alcune realtà significa tutto. Di che famiglia sei? Non basta dire il nome dei tuoi avi, il tuo cognome, devi dire la “razza”, il soprannome. Non ha nulla di razzista, chiariamo, non si intende la provenienza. In questa rubrica parliamo di soprannomi, quasi sempre indicativi di una particolarità fisica o di un aneddoto di vita. Oggi parliamo della famiglia “de piccirullu”.
Vissi de Piccirillu. Chi sono? Che significa? Nome che indicava un uomo, della seconda metà dell’ottocento,nonno di Antonio e Giuseppina, di piccola statura. Pinzuti il loro cognome. Cinque figli, un maschio e quattro femmine, Nicolina,Assunta, Rosa, Antonio, Giuseppina. Antonio piccolo di statura, non aveva figli e sposò una donna “forestiera”, di Vivaro Romano. Un uomo di una generosità disarmante, cucinava dei frittelli buonissimi. Spesso mandava noi ragazzini a prendergli delle cose alla bottega di Giancarlo, il più delle volte succedeva che il prosciutto che ci mandava a comprare veniva mangiucchiato durante il viaggio di ritorno, il cartoccio con il pecorino grattucciato veniva perso correndo. Mai un’alzata di voce, tanto che continuava a mandarci nonostante gli esiti delle commissioni. Quando si sposò il matrimonio fu celebrato a Vivaro, con il conseguente pranzo da fare ad Orvinio. Il viaggio fu effettuato a cavallo, su asini per la precisione. Subito sotto Orvinio, all’altezza del ponte, l’asino di Antonio si spaventò, lo fece cadere e colpì alle parti basse il povero sposo novello. Natalina, con ancora il vestito bianco esclamò “oddiu meu.. Avemo abbelato”.
I Pinzuti avevano uno spiccato senso dell’umorismo, Antonio, ma soprattutto Giuseppina, sua sorella più piccola. Donna dallo sguardo penetrante, occhi azzurri che ridevano ancora prima della bocca. Battuta sempre pronta, lasciò Orvinio per Roma, dove però tornava l’estate. Abitava durante il periodo estivo nella casa che fu di Antonio e Natalina. Colle zucco, a ridosso delle mura del castello. Si portava fuori una sdraietta, posizionava un comodo cuscino e tra una parola crociata, due giri di uncinetto e un saluto con chi passava si appisolava, ogni tanto rumorosamente. Spesso con i suoi figli ci divertivamo a stuzzicarla, ricevendo sempre risposte colorite e colorate. Giuseppina aveva due figli maschi, anche se in molti hanno creduto, lo credono ancora anzi, all’esistenza di una figlia, ma altro non era che sua nuora, Daniela, moglie di Gianni, ma visto il rapporto tra le due ci si stupiva fossero suocera e nuora. Giuseppina allietava le estati orviniesi nel suo rione. Rione che si ripopolava nei mesi estivi, ma che vedeva in lei un perno sociale importante così come lo era al suo centro anziani di Roma. Un pomeriggio di tanti anni fa pretendeva che suo figlio segnasse con un pennarello indelebile un puntino bianco vicino al grosso tasto verde del suo telefono. Inutili sono stati i tentativi di spiegarle che il verde era il tasto per rispondere. No, lei voleva anche il puntino bianco. Gianni obbedì, ma più per evitare di sentirla parlare della teoria del puntino bianco più chiaro del tasto verde.Donna che stava agli scherzi, una notte rientrando a casa notai che la luce in bagno era accesa, la ciao un piccolo sassolino contro il vetro. Dall’interno uscì chiaramente un “Robè? Vattene a casa, tanto lo so che sei tu”, ridendo. Carismatica, forte, la sua assenza si sente moltissimo. Capita di vedere quella sua sdraietta ad agosto, fuori casa, e sobbalzare credendo di poterla vedere apparire da un momento all’altro, pronta a riprendere possesso del suo trono.
Giuseppì? Giobbettina, anzi, come ti chiamava Aurora da piccola, quante sagne stai impastando per Natale?
Ne era passato di tempo dall’ultima volta che aveva scalato il monte Cacuno! Lo scorrere degli anni, inesorabile, la lunga malattia, gli innumerevoli viaggi attraverso l’Impero avevano lasciato tracce pesanti, e non più cancellabili, nel suo corpo. Tito Prifernio Paeto Rosiano Nonio Agricola Caio Labeo Tettio Gemino, per noi semplicemente Gemino, apparteneva all’illustre famiglia dei Prifernii, nativi di Trebula Mutuesca, l’unica città aborigena sopravvissuta alle devastazioni del tempo, della natura e degli esseri umani. Che restava infatti di Suesbula, di Suna e della celeberrima Orvinium con le sue possenti mura ed i numerosi sepolcri? Solo una manciata di pietre sparse, miseri resti di una gloria ormai appartenente al passato. Gemino sorrideva al pensiero di quando, bambino, saliva spensierato verso il sacello di Giove Cacuno: le balze rocciose diventavano ai suoi occhi le imprendibili mura di Sagunto o Masada, ogni fila di arbusti si tramutava in una linea di famigerati fanti libici da sfondare senza esitazione, il lancio di un sasso lo trasformava d’un colpo in un temibile fromboliere balearico. Ed il padre, Gemino senior, sorrideva, allietato dal vedere tanta energia e fantasia confinate in un corpo così esiguo. A quei tempi riecheggiavano ancora a Trebula Mutuesca e nella Sabina intera le gesta di Memmio Apollinare, suo zio adottivo. E come non ricordarlo? Chi, in tutta la Sabina, seppure terra di uomini pii, duri e coraggiosi, poteva vantare una hasta pura, un vexillum ed una corona muralis? Giustissime decorazioni per le sue clamorose gesta militari, ricevute per di più dalle mani stesse del leggendario Traiano durante le sue campagne daciche! E quante volte, da adolescente, in viaggio da Reate a Interamna verso la villa del nonno Sesto Rosio ai campi rosii, non lontano dalle Sette Acque, si era fermato dinanzi allo splendido monumento funerario di Memmio, leggendone con passione l’epigrafe commemorativa? Quell’immagine di Memmio che saltava impavido, tra dardi e proiettili, all’assalto delle mura di Sarmizegetusa o di una delle innumerevoli fortezze del Murus Dacicus aveva nutrito il coraggio su cui aveva costruito poi la sua solida carriera. E quanta fortuna Gemino aveva avuto nella vita: nato all’epoca del grande Traiano, aveva sempre goduto della stima di Adriano, di cui era stato più volte candidatus. Tribuno militare, in Giudea, della leggendaria Decima Legione e legato della XIV, legato pro praetore della provincia d’Aquitania, a Burdigalia, console nel 146, governatore della Dalmazia a Salona, adesso gli si apriva, infine, la via verso l’incarico più prestigioso, il proconsolato d’Africa.Ma in realtà, da uomo pio quale era, sapeva in cuor suo che il vero artefice della sua felicità non era affatto la dea Fortuna ma il suo nume tutelare, Giove Cacuno! Il suo sguardo paterno e benevolente lo aveva accompagnato in ogni momento della sua vita, senza dubbio una giusta ricompensa della sua pietas. Ne aveva fatti di sacrifici in suo onore e ogni volta ne aveva seguito i preziosi consigli, celati nelle complesse convoluzioni di un fegato, nella forma anomala di un rene, nel volo nervoso di sospettose cornacchie o nell’insolita mansuetudine di un agnello sacrificale. Ed in fondo Marco Tullio Cicerone aveva ragione quando diceva che il motivo per il quale il popolo romano aveva vinto gli Iberici, i Galli, i Cartaginesi, i Greci, i Latini, gli Italici non risiedeva nel numero, nella forza, nella scaltrezza o nelle arti ma solo nella sua grande pietas, l’umile, umano riconoscimento che la potenza degli dei regolava e governava tutti gli aspetti della nostra vita.Appena qualche giorno prima, di ritorno a Roma sulla via Valeria, all’imbrunire, sorpreso da una tempesta nei pressi di Vicus Variae, aveva visto con sgomento numerose folgori abbattersi sulle cime del Mons Lucretilis. Per un uomo pio come lui, a poche settimane appena dalla partenza per l’Africa, era un chiaro omen: la fiducia di Giove Cacuno aveva bisogno di essere rinnovata nel fuoco sacrificale del suo altare. Non era la prima volta che lo faceva: di passaggio in Pannonia, a Poetovio, si era spinto fino al tempio di Giove Uxellimo o Culminale per chiederne la protezione; di ritorno da Aventincum, in Helvetia, aveva lasciato ricche offerte votive nel celebre tempio di Giove Pennino, per ringraziarlo del buon esito della sua missione.Gemino continuava a salire verso l’ara di Giove Cacuno, sempre più affaticato, domandosi, come Orazio, se quello fosse davvero l’ultimo inverno che gli dei gli avessero concesso di vivere. In fondo, di inverni, ne aveva già visti 53, il che non era affatto poca cosa per l’epoca. Ma alla vista del cacume del monte sacro a Giove, la sua fatica si era dissolta subitamente come nebbia al sole. Il vittimario ed i membri della sua famiglia lo aspettavano, tutto era già pronto. Prifernia, la sua adorata figlia, ormai promessa in sposa a Giulio Lucano, era lì ad accoglierlo con quel sorriso che per Gemino valeva ben più delle ricchezze del mondo intero.L’incenso bruciava nell’acerra insieme alla vervena e alla maggiorana, diffondendo il suo odore dolce e resinoso nell’aria. Il gutus era ricolmo di ottimo vino falerno, giusto e dovuto omaggio a Giove. Gemino, col capo coperto dalla bianca toga, gettando l’incenso ed il vino nel sacro focus iniziò ad invocare Giano e Giove: nel silenzio della foresta riecheggiavano, come magiche litanie le sue parole: “Iuppiter macte isto ture esto, macte vino inferio esto…”. I gesti sacrificali si succedevano rapidamente l’uno dopo l’altro, una sacra sequenza ripetuta talmente tante volte da essere ormai diventata un gesto meccanico. Spargendo la mola salsa sul dorso del bianco, mansueto agnello, Gemino aveva per un attimo provato un’umana compassione per la sua ormai prossima fine ma chi era lui per stabilire cosa fosse giusto o ingiusto, misero uomo, il cui fato era nelle mani di poteri così superiori? In fondo, solo agli occhi di Giove poteva apparire giusto avere voluto punire l’empietà dell’arrogante console Flaminio con la morte di migliaia di innocenti soldati sulle rive del lago Trasimeno. Il vino falerno, versato dalla patera, scorreva sulla fronte della vittima, separandosi e poi di nuovo raccogliendosi in molteplici rivoli di un colore rosso cupo. Gemino, sfiorando il dorso della vittima con il suo coltello sacrificale, ne aveva sentito il calore, vivente, palpitante: quanto era flebile, impercettibile la distanza che separa il vivente da ciò che vivente non lo è, aveva sussurrato tra sé e sé.L’agnello, abbassando docilmente la sua testa aveva dato, inconsapevolmente, il suo assenso: era ormai pronto al sacrificio. Gemino, fattosi da parte, diede al vittimario il segnale e pochi istanti dopo la vittima giaceva ormai inanimata sull’altare sacrificale. Con l’aiuto del suo fedele aruspice, Gemino, che non riusciva ormai a trattenere più la sua ansia, si affrettò ad esaminare, con il suo occhio esperto, gli organi interni della vittima. Che grande sollievo, la litatio tanta attesa si era infine manifestata: Giove Cacuno aveva accettato la sua offerta, la sacra alleanza era stata di nuovo ristabilita, ormai poteva partire sereno per l’Africa sapendo che a vegliare su di lui ci sarebbe stato ancora una volta il suo nume tutelare. Dopo avere offerto gli exta della vittima a Giove e Giano, preparando l’abbondante epulum da condividere con i familiari, ammirava rilassato dal sacello di Giove Cacuno lo splendido paesaggio che si apriva dinanzi a lui in questa tersa mattina autunnale: il Tetrico, il Soratte, il Lucretile risplendevano in tutta la loro maestosa bellezza e tra sé e sé si chiedeva se mai ci fosse tempio sulla Terra più bello di questo in cui venerare il sommo Giove.
Nella primavera del 1877 entrava in servizio nel birrificio Dreher, nell’allora austro-ungarica Trieste, la prima macchina frigorifera industriale Linde. Ben pochi potevano immaginare che quello che sembrava allora un miracolo della termodinamica industriale sarebbe diventato nel volgere di un secolo un banale, e a volte fastidioso, ronzio, quello del compressore di un qualunque frigorifero delle nostre cucine.
Carl von Linde, geniale ingegnere ed imprenditore tedesco, calato sulla scena come un vero deus ex machina, aveva inaspettatamente chiuso il sipario su una plurisecolare e lucrativa attività, quella del commercio della neve, fiorente soprattutto nell’area dei Lucretili. Di questo commercio, che arricchiva lo Stato Pontificio, restano solo sparute tracce, che il tempo si affanna a cancellare: una manciata di pozzi per la raccolta e la conservazione della neve, ormai ricolmi di detriti, sul crinale del Monte Pellecchia (la cui neve era reputata, e di gran lunga, la migliore), una strada della Neve che sopravvive ormai solo nella toponomastica locale e che assicurava il trasporto della neve fino a Roma, passando per Palombara, l’ormai dimenticato culto della Madonna della Neve, a Monteflavio e a Rocca Priora, sui Colli Albani e la celebre neviera di Papa Giulio III, a villa Giulia. Ma se il commercio della neve ha in realtà radici medio-orientali antichissime, che si perdono nella notte dei tempi, è con gli antichi romani che ha assunto una dimensione ineguagliata di lusso e cupidigia.
E chi meglio di Nerone potrebbe introdurci nel folle mondo del lusso romano? Lasciamo Svetonio descriverci gli ultimi momenti di vita del celebre imperatore: Scalzo, con una sola tunica addosso, Nerone, ancora terrorizzato dalle grida dei pretoriani che giurano fedeltà a Galba nei Castra Praetoria, accanto ai quali è passato al galoppo, raggiunge, ansimante, la villa di campagna del suo fedele liberto Faonte, alle porte di Roma. Avanzando tra i rovi a quattro zampe, arso dalla sete, raccoglie nel cavo della mano l’acqua putrida di una pozzanghera e la beve, rassegnato alla morte ormai prossima, esclamando ironicamente la celebre frase: “Haec est Neronis decocta!”.
Nerone in effetti si vantava di avere inventato la cosiddetta acqua “decotta”, cioè acqua fatta bollire e poi raffreddata ponendo il contenitore nella neve fresca. I suoi vizi non si limitavano certo solo a questo. Svetonio ci dice che Nerone amava intervallare gli interminabili banchetti estivi che si protraevano da mezzogiorno a mezzanotte con rinvigorenti nuotate in piscine fatte raffreddare con la neve. E non possiamo allora non pensare a Seneca, il celebre precettore di Nerone, che certamente non approvava gli eccessi del suo allievo. Nelle sue Questioni Naturali Seneca si lamenta apertamente del commercio della neve: il lusso, ci dice, non contento che l’acqua fosse gratuitamente disponibile per tutti, l’ha voluta trasformare in merce rara. Ormai nessuna acqua corrente appare fresca a sufficienza per raffreddare gli stomaci arsi dalle indigestioni quotidiane.
E non bastando piu’ la neve ora si cerca il ghiaccio, estratto dal fondo delle neviere, il cui prezzo, oggetto di folli speculazioni, varia in continuazione! E cosa avrebbero mai fatto gli integerrimi Spartani, che avevano cacciato via i profumieri, accusati di sprecare prezioso olio, se avessero visto a Roma tutte queste officine della neve e questo incessante viavai di bestie da soma adibite al trasporto di un ghiaccio il cui gusto era, tra l’altro, irrimediabilmente guastato dalla paglia utilizzata per la sua conservazione? Ma le invettive dello stoico precettore neroniano non servirono a molto. Qualche decina di anni dopo, Marziale, nei suoi epigrammi, continua a fustigare, con la sua ineguagliabile ironia, il vizio della neve. Se esorta il suo amico Alcino a sciogliere della neve conservata per l’estate nel vino che si apprestano a bere, in un altro epigramma consiglia di non mescolare il pessimo vino di Marsiglia con acqua fresca di neve perché costerebbe ben piu’ l’acqua del vino e lo stesso vale per i mediocri vini spoletini o marsicani.
Ad un altro amico dice di volere regalare per la festa dei Saturnali una fiaschetta di acqua decotta, che considera una geniale invenzione, in cambio di un dono ben piu’ pregiato e biasima poi il medico che gli proibisce, per motivi di salute, di bere la neve augurando a chi lo invidia di bere acqua calda! È vero che in generale tutti i medici romani reputano malsano bere la neve, tutti tranne uno, secondo Marco T. Varrone. Il dotto reatino ci dice infatti che il medico ed amico di Cicerone, Asclepiade di Prusa, era soprannominato “frigida danda” per la sua abitudine di prescrivere ai suoi pazienti vino ed acqua fredda di neve. Plinio il Vecchio nella sua Storia Naturale non è dello stesso avviso, reputando malsana l’abitudine di bere la neve, il ghiaccio e soprattutto la grandine e bacchetta i ricchi che si ostinano a farlo, trasformando quelli che un tempo erano flagelli delle montagne in peccati di gola. Il nipote, Plinio il Giovane, non deve avere dato molto retta ai consigli del celebre zio perché parecchi anni dopo lo troviamo molto irritato dal fatto che il suo amico Setticio Claro, potente prefetto del Pretorio, non si sia presentato alla cena a cui era stato invitato, facendogli sprecare la neve che era stata imbandita sui tavoli. Il piu’ bel racconto è però quello di Aulo Gellio che in una imprecisata rovente estate romana della seconda metà del II secolo d.C. si trova in una villa di un ricco amico nei pressi di Tivoli. Immersi nelle loro discussioni filosofiche, sorseggiano grandi quantità di neve al punto che un loro amico, seguace di Aristotele, con un libro del celebre Stagirita alla mano, si scaglia indignato contro questo malsano vizio.
E cita l’inoppugnabile argomentazione di Aristotele: quando il ghiaccio si scioglie si riduce di volume e l’acqua di fusione, pesante, risulta dunque privata della sua parte piu’ eterea e benefica. Aulo ci assicura di essere stato così convinto che smise immediatamente di bere neve ma altrettanto non fecero i suoi amici. A non molta distanza dalla villa di cui ci parla Aulo Gellio sorgeva quella, imponente, fatta erigere dal Divo Adriano, suo rifugio prediletto e nei cui criptoportici sotterranei si celavano immense neviere. Un pensiero finale va dunque all’imperatore, magnificamente descritto da Marguerite Yourcenar, nelle sue celebri memorie. Inquieto per la sua salute declinante e disteso su un triclinio del sontuoso ninfeo del Canopo, lo sorprendiamo, in un afoso tramonto agostano, a sorseggiare acqua decotta in un raffinato calice e ad assaporare una deliziosa, croccante insalata di pollo all’apiciana, raffreddata con la neve del “Lucretilis Mons”. Il suo sguardo pensieroso rimbalza sull’immobile specchio d’acqua del Canopo e si sofferma, esitante, sulle bianche nuvole sovrastanti i non lontani Lucretili. Un sorriso a stento trattenuto affiora all’improvviso sul suo volto barbuto, i Lucretili e la loro candida neve regalano ancora un effimero, forse ultimo, momento di gioia all’anima vagula blandula, sua fedele compagna di vita.
Abitando al 3° piano dell’ala di Palazzo Morelli in via Nuova, ho il piacere di vedere Orvinio dall’alto. Ogni mattina alle 6,30 – 7,00 circa, quando mi alzo, mi affaccio alla finestra di casa e assaporo l’aria pulita che mi bacia il viso, con una sensazione di fresco di cui si può godere in particolare a quell’ora. Ascolto addirittura il gorgoglio dell’acqua della fontana pubblica, che scroscia noncurante di far rumore, anzi, orgogliosa, aspetta di dissetare i ciclisti assetati che, in questa stagione, attraversano numerosi il paese. Molto spesso intravedo, oltre i tetti delle case della piazza, un lago di nebbia che, pacificamente, sovrasta la vallata della “Chiusa”. Per fortuna dopo un po’ si dissolve, favorendo il riapparire dei contorni dei monti un po’ più distanti, tra cui spicca la cima del “Velino”. Intanto, a colpi di martelletto sulla campanella, scandisce le ore il bell’orologio della piazza, incastonato sulla torretta sovrastante “l’Arco”, che è la porta i ingresso al centro storico del paese. Anche la campana della Chiesa Parrocchiale fa da contraccolpo ai battiti dell’orologio, con i rintocchi dell’Ave Maria del mattino. Mi cade l’occhio, nello stesso tempo, sulla casa degli anziani coniugi Americo e Maria e mi rassicuro perché le persiane delle finestre sono già aperte e gli scuri del portoncino d’ingresso alla loro abitazione, già tolti. Meno male! Sono svegli e come ogni giorno. Maria comincia le sue faccende: innaffia i vasi di fiori che le fanno compagnia proprio li fuori dalla porta, posiziona accanto all’uscio il cestello dei rifiuti che, regolarmente, dopo un po’ viene ritirato dagli operatori della raccolta “porta a porta”, si siede su una seggiola davanti casa aspettando di fare altro. Il marito Americo, con amore, la osserva dal vetro della finestra del piano superiore. Sento che il rumore delle serrande del Bar di primo in viale Roma che, da una vita amorevolmente, apre i battenti e scalda la macchina del caffè per servire la colazione a coloro che entrano e poi si soffermano sul marciapiedi antistante l’esercizio pubblico, per imbastire tipici discorsi sul “calcio” e la “caccia”. Tutti i giorni poi appaiono all’improvviso sulla piazza, gruppetti di pellegrini, dall’abbigliamento tipico di chi si muove a piedi, bardati di zaino sulle spalle, che si accingono a riprendere il “Cammino di San Benedetto”, che prevede Orvinio come tappa del suo percorso, dopo aver riposato nella notte ed essersi rifocillato nel grazioso B&B di Simonetta. Ammirano con aria benevola lo scenario che appare loro davanti: la scalinata della Salita del Borgo al Conventino, con in alto la Chiesa di Santa Maria dei Raccomandati, l’alberata di viale Roma e la fontana. Il buongiorno poi è caratterizzato dagli anziani, benché pochi, che occupano le panchine posizionate ai lati della piazza, fanno salotto con l più svariate e variopinte argomentazioni, trattate con simpatia e saggezza. Paradossalmente, il mattino vede più vita del resto della giornata, perché proprio a quell’ora c’è un piccolo traffico dei mezzi agricoli che muovono verso il lavoro, pochi giovani studenti pendolai che partono per la scuola, alcuni operai che si apprestano a dare inizio al loro lavoro di manodopera, aprono i negozi. La vita del mio paese comincia così ogni giorno ed è caratterizzata da meccanismi lenti che sottolineano il contrasto con la fretta della città, dove tutto corre veloce, dove tutti corrono veloci. Peccato, però, che nel mio paese ci vive pochissima gente che, però, ha anche il tempo di non fare niente.