
Ne era passato di tempo dall’ultima volta che aveva scalato il monte Cacuno! Lo scorrere degli anni, inesorabile, la lunga malattia, gli innumerevoli viaggi attraverso l’Impero avevano lasciato tracce pesanti, e non più cancellabili, nel suo corpo. Tito Prifernio Paeto Rosiano Nonio Agricola Caio Labeo Tettio Gemino, per noi semplicemente Gemino, apparteneva all’illustre famiglia dei Prifernii, nativi di Trebula Mutuesca, l’unica città aborigena sopravvissuta alle devastazioni del tempo, della natura e degli esseri umani. Che restava infatti di Suesbula, di Suna e della celeberrima Orvinium con le sue possenti mura ed i numerosi sepolcri? Solo una manciata di pietre sparse, miseri resti di una gloria ormai appartenente al passato. Gemino sorrideva al pensiero di quando, bambino, saliva spensierato verso il sacello di Giove Cacuno: le balze rocciose diventavano ai suoi occhi le imprendibili mura di Sagunto o Masada, ogni fila di arbusti si tramutava in una linea di famigerati fanti libici da sfondare senza esitazione, il lancio di un sasso lo trasformava d’un colpo in un temibile fromboliere balearico. Ed il padre, Gemino senior, sorrideva, allietato dal vedere tanta energia e fantasia confinate in un corpo così esiguo. A quei tempi riecheggiavano ancora a Trebula Mutuesca e nella Sabina intera le gesta di Memmio Apollinare, suo zio adottivo. E come non ricordarlo? Chi, in tutta la Sabina, seppure terra di uomini pii, duri e coraggiosi, poteva vantare una hasta pura, un vexillum ed una corona muralis? Giustissime decorazioni per le sue clamorose gesta militari, ricevute per di più dalle mani stesse del leggendario Traiano durante le sue campagne daciche! E quante volte, da adolescente, in viaggio da Reate a Interamna verso la villa del nonno Sesto Rosio ai campi rosii, non lontano dalle Sette Acque, si era fermato dinanzi allo splendido monumento funerario di Memmio, leggendone con passione l’epigrafe commemorativa? Quell’immagine di Memmio che saltava impavido, tra dardi e proiettili, all’assalto delle mura di Sarmizegetusa o di una delle innumerevoli fortezze del Murus Dacicus aveva nutrito il coraggio su cui aveva costruito poi la sua solida carriera. E quanta fortuna Gemino aveva avuto nella vita: nato all’epoca del grande Traiano, aveva sempre goduto della stima di Adriano, di cui era stato più volte candidatus. Tribuno militare, in Giudea, della leggendaria Decima Legione e legato della XIV, legato pro praetore della provincia d’Aquitania, a Burdigalia, console nel 146, governatore della Dalmazia a Salona, adesso gli si apriva, infine, la via verso l’incarico più prestigioso, il proconsolato d’Africa.Ma in realtà, da uomo pio quale era, sapeva in cuor suo che il vero artefice della sua felicità non era affatto la dea Fortuna ma il suo nume tutelare, Giove Cacuno! Il suo sguardo paterno e benevolente lo aveva accompagnato in ogni momento della sua vita, senza dubbio una giusta ricompensa della sua pietas. Ne aveva fatti di sacrifici in suo onore e ogni volta ne aveva seguito i preziosi consigli, celati nelle complesse convoluzioni di un fegato, nella forma anomala di un rene, nel volo nervoso di sospettose cornacchie o nell’insolita mansuetudine di un agnello sacrificale. Ed in fondo Marco Tullio Cicerone aveva ragione quando diceva che il motivo per il quale il popolo romano aveva vinto gli Iberici, i Galli, i Cartaginesi, i Greci, i Latini, gli Italici non risiedeva nel numero, nella forza, nella scaltrezza o nelle arti ma solo nella sua grande pietas, l’umile, umano riconoscimento che la potenza degli dei regolava e governava tutti gli aspetti della nostra vita.Appena qualche giorno prima, di ritorno a Roma sulla via Valeria, all’imbrunire, sorpreso da una tempesta nei pressi di Vicus Variae, aveva visto con sgomento numerose folgori abbattersi sulle cime del Mons Lucretilis. Per un uomo pio come lui, a poche settimane appena dalla partenza per l’Africa, era un chiaro omen: la fiducia di Giove Cacuno aveva bisogno di essere rinnovata nel fuoco sacrificale del suo altare. Non era la prima volta che lo faceva: di passaggio in Pannonia, a Poetovio, si era spinto fino al tempio di Giove Uxellimo o Culminale per chiederne la protezione; di ritorno da Aventincum, in Helvetia, aveva lasciato ricche offerte votive nel celebre tempio di Giove Pennino, per ringraziarlo del buon esito della sua missione.Gemino continuava a salire verso l’ara di Giove Cacuno, sempre più affaticato, domandosi, come Orazio, se quello fosse davvero l’ultimo inverno che gli dei gli avessero concesso di vivere. In fondo, di inverni, ne aveva già visti 53, il che non era affatto poca cosa per l’epoca. Ma alla vista del cacume del monte sacro a Giove, la sua fatica si era dissolta subitamente come nebbia al sole. Il vittimario ed i membri della sua famiglia lo aspettavano, tutto era già pronto. Prifernia, la sua adorata figlia, ormai promessa in sposa a Giulio Lucano, era lì ad accoglierlo con quel sorriso che per Gemino valeva ben più delle ricchezze del mondo intero.L’incenso bruciava nell’acerra insieme alla vervena e alla maggiorana, diffondendo il suo odore dolce e resinoso nell’aria. Il gutus era ricolmo di ottimo vino falerno, giusto e dovuto omaggio a Giove. Gemino, col capo coperto dalla bianca toga, gettando l’incenso ed il vino nel sacro focus iniziò ad invocare Giano e Giove: nel silenzio della foresta riecheggiavano, come magiche litanie le sue parole: “Iuppiter macte isto ture esto, macte vino inferio esto…”. I gesti sacrificali si succedevano rapidamente l’uno dopo l’altro, una sacra sequenza ripetuta talmente tante volte da essere ormai diventata un gesto meccanico. Spargendo la mola salsa sul dorso del bianco, mansueto agnello, Gemino aveva per un attimo provato un’umana compassione per la sua ormai prossima fine ma chi era lui per stabilire cosa fosse giusto o ingiusto, misero uomo, il cui fato era nelle mani di poteri così superiori? In fondo, solo agli occhi di Giove poteva apparire giusto avere voluto punire l’empietà dell’arrogante console Flaminio con la morte di migliaia di innocenti soldati sulle rive del lago Trasimeno. Il vino falerno, versato dalla patera, scorreva sulla fronte della vittima, separandosi e poi di nuovo raccogliendosi in molteplici rivoli di un colore rosso cupo. Gemino, sfiorando il dorso della vittima con il suo coltello sacrificale, ne aveva sentito il calore, vivente, palpitante: quanto era flebile, impercettibile la distanza che separa il vivente da ciò che vivente non lo è, aveva sussurrato tra sé e sé.L’agnello, abbassando docilmente la sua testa aveva dato, inconsapevolmente, il suo assenso: era ormai pronto al sacrificio. Gemino, fattosi da parte, diede al vittimario il segnale e pochi istanti dopo la vittima giaceva ormai inanimata sull’altare sacrificale. Con l’aiuto del suo fedele aruspice, Gemino, che non riusciva ormai a trattenere più la sua ansia, si affrettò ad esaminare, con il suo occhio esperto, gli organi interni della vittima. Che grande sollievo, la litatio tanta attesa si era infine manifestata: Giove Cacuno aveva accettato la sua offerta, la sacra alleanza era stata di nuovo ristabilita, ormai poteva partire sereno per l’Africa sapendo che a vegliare su di lui ci sarebbe stato ancora una volta il suo nume tutelare. Dopo avere offerto gli exta della vittima a Giove e Giano, preparando l’abbondante epulum da condividere con i familiari, ammirava rilassato dal sacello di Giove Cacuno lo splendido paesaggio che si apriva dinanzi a lui in questa tersa mattina autunnale: il Tetrico, il Soratte, il Lucretile risplendevano in tutta la loro maestosa bellezza e tra sé e sé si chiedeva se mai ci fosse tempio sulla Terra più bello di questo in cui venerare il sommo Giove.
Filippo Tani